Don Luigi Ciotti, nato nel 1945, inizia il suo impegno sociale da adolescente, e a vent’anni fonda il Gruppo Abele, che si occupa, tra l’altro, di emarginazione giovanile, tossicodipendenza, lotta allo sfruttamento della prostituzione.
Nel 1996 è fra i fondatori di Libera, una rete di realtà attive nel contrasto alla criminalità di stampo mafioso e nella promozione della legalità e della giustizia.
Insieme al giornalista Stefano Garzaro, Don Ciotti ha scritto C’è bisogno di te per costruire un mondo più giusto, in cui il prete “contro” più famoso d’Italia racconta dieci incontri con gli Ultimi: attraverso le storie raccolte da una vita di servizio fra coloro che stanno ai margini della nostra società, Don Luigi Ciotti si rivolge alle giovani generazioni per parlare alla loro coscienza umana, civile e politica prima ancora che religiosa, in un libro che raccoglie più di 50 anni di esperienza di accoglienza.
Vi riportiamo qui alcuni stralci del primo capitolo del libro, che raccontano la nascita del Gruppo Abele e il fulcro di tutte le attività seguite da Don Ciotti.
Stefano: Raccontami allora com’è nato il Gruppo Abele. Avete studiato un piano a tavolino? Coinvolto agenzie di ricerca?
Luigi: Agenzie di ricerca? Tu sei matto. Oggi, forse, qualcuno farebbe così, ma noi eravamo una decina di amici, ragazzi e ragazze tutti molto giovani, semplici studenti e operai. Vedevamo l’ingiustizia nel mondo, e capivamo che non se ne sarebbe andata da sola: toccava a noi far la nostra parte. […]
Eravamo pieni di entusiasmo, anche se ci mancava quasi tutto: organizzazione, strumenti, denaro. Cominciammo a metterci accanto alle persone senza casa che dormivano per terra sotto i portici o sulle panchine delle stazioni: la sera eravamo là con un pasto caldo, ma soprattutto con la voglia di chiacchierare, di ascoltarli. […]
Stefano: Immagino che abbiate imparato molto dalle storie di quelle persone.
Luigi: Eccome. Cercavamo di studiare, di tenerci informati attraverso i giornali, ma le storie che ascoltavamo direttamente dalla bocca della gente erano più importanti, perché ti sbattevano in faccia la realtà: la nostra società era malata di egoismo, non sapeva condividere. E noi non potevamo mica star fermi a guardare. La sera giravamo tra i binari della stazione, salivamo sui treni in sosta dove alcuni cercavano riparo dal freddo. Mentre di giorno ci trovavi nei quartieri più poveri e periferici, abitati soprattutto da persone immigrate. […]
Stefano: Non avevate paura?
Luigi: Paura? E perché? Offrivamo amicizia con semplicità e sincerità. Ci facevamo avanti col pallone al piede, per rompere il ghiaccio, e fra un tiro e l’altro cercavamo di costruire una fiducia reciproca, di raccontarci le nostre storie. […]
Stefano: Però, spiegami, facevate i volontari a tempo pieno? Ci pensavano le vostre famiglie a mantenervi?
Luigi: Macché! Come ti ho già detto, le nostre non erano famiglie benestanti. E togliamoci dalla testa quest’idea che l’impegno sociale sia un lusso per la gente ricca, che non ha bisogno di guadagnarsi il pane! Alcuni di noi studiavano e vivevano ancora con i genitori, altri avevano dei primi lavoretti. Io invece in quegli anni frequentavo il seminario a Rivoli, dove studiavo per diventare sacerdote, e venivo a Torino nei momenti liberi, soprattutto la sera.
Stefano: E in che modo hai mescolato quella scelta al volontariato sulla strada?
Luigi: Inizialmente grazie alla comprensione dei miei insegnanti del seminario. […] Immagina un po’, quando qualcuno si accorse che la sera me la svignavo e per qualche ora venivo a Torino per dare una mano alle attività del Gruppo! Spesso rientravo a notte fatta… Ovviamente la cosa non fu ben vista da alcuni superiori. Eppure ci fu chi mi difese, e seppe vedere, in quell’impegno accanto agli emarginati, un modo per concretizzare la mia scelta di fede, non per tradirla.
[…] Il Gruppo è fondato sul “noi”, non sui singoli. Intanto l’associazione era cresciuta. […] Entrammo infatti nel carcere minorile e iniziammo a pensare ai problemi dei giovani tossicodipendenti.Stefano: Quello della droga allora era un tema poco conosciuto.
Luigi: Mancava la consapevolezza e mancavano soprattutto gli strumenti per dare una mano a chi stava male. Noi iniziammo a parlarne a voce alta, perché tutti si sentissero toccati da un problema che investiva sempre più giovani vite. E tante ne uccideva. Nel 1973 fondammo la prima comunità: era in una cascina a Murisengo, nelle belle campagne del Monferrato. La chiamammo Cascina Abele, come la nostra associazione.
Stefano: Ecco, non abbiamo ancora parlato del nome. Abele è un personaggio biblico. Perché avete scelto proprio lui?
Luigi: La storia di Abele è nelle prime pagine della Bibbia, poco dopo il racconto della creazione di Adamo e di Eva. Abele è il loro figlio minore, un ragazzo allegro e limpido, e fa il pastore. Il figlio maggiore Caino, che coltiva la terra, è invece triste e violento. Caino osserva il fratello che parla felice con Dio, ed è pieno di rabbia e di invidia. Pensa che Abele sia il prediletto del Signore, cosa non vera, perché per Dio siamo tutti prediletti. Così un giorno, quando Caino incontra Abele da solo nei campi, lo uccide.
Stefano: È una vicenda terribile, che continua anche nel nostro tempo: la violenza contro gli indifesi. Chi è oggi Abele?
Luigi: È il ragazzo che non ha famiglia, quello caduto nel pozzo della dipendenza da droga, chi ha perso la casa e vive per strada, il prigioniero, il perseguitato per il colore della pelle o per le idee politiche, la donna maltrattata, la persona uccisa dalla mafia. Chiamammo così il Gruppo perché volevamo stare dalla parte delle persone emarginate e calpestate, dalla parte di Abele. E noi non potevamo mica star fermi a guardare. La sera giravamo tra i binari della stazione, salivamo sui treni in sosta dove alcuni cercavano riparo dal freddo. Mentre di giorno ci trovavi nei quartieri più poveri e periferici, abitati soprattutto da persone immigrate. […]