Scrivere di migranti è sempre una sfida. Specie se si tratta di bambini e per bambini. Non è facile descrivere le vite, le speranze, i dolori e le angosce che degli esseri umani sono costretti ad affrontare sin dall’infanzia. Si tratta di esperienze inconcepibili, lontane anni luce dalle nostre esperienze. Viceversa, è facile scivolare nel buonismo e nella facile retorica, nella tentazione di evitare le pagine più dure, i momenti che non si sa come accettare, figuriamoci raccontare.
Lo dico da scrittrice, prima che da editor.
Per questo, quando si incontra un romanzo che dice tutto, anche l’indicibile, con tanta grazia, con tanta compassione, con tanta levità, è facile diventare bravi recensori.
La storia di Abela, magistralmente scritta da Berlie Doherty (che non per caso è autrice di oltre cinquanta romanzi per bambini, ragazzi e adulti e ha scritto anche per il teatro, la radio e la televisione ed è stata tradotta in più di venti lingue vincendo molti premi, fra cui, per ben due volte, la prestigiosa Carnegie Medal) è un passaggio obbligato per chi sente il dovere di spiegare ai bambini le fatiche del nascere in un continente come quello africano, terra di lancinante bellezza e difficoltà abnormi. Terra di riti crudeli e ancestrali, di malattie mortali, di necessità basilari e di enormi speranze.
Rosa è una bambina che vive in Inghilterra che non ne vuole sapere di avere una sorellina, meno che mai adottata e pertanto combatte una guerra di nervi contro sua mamma che vorrebbe accogliere in famiglia chi ha avuto meno fortuna. Anche se Rosa è per metà africana, quindi dovrebbe essere la prima ad essere buona. Viceversa è arrabbiata, gelosa, piccola e terribilmente umana.
Rosa non sa niente di Abela. O della sua mamma malata di aids, che in punto di morte riesce solo a chiedere alla figlia di essere forte, altrimenti non potrà sopravvivere alle prove cui il destino la sottoporrà: i lutti, la sofferenza fisica e psicologica, lo spietato zio Thomas che decide di sfruttarla per ottenere un permesso di soggiorno in Inghilterra, il distacco dalla nonna, la fatica ad adattarsi a una nuova vita tra famiglie affidatarie e servizi sociali. Il tutto senza mai perdere la gioia di vivere, perché Abela ha visto i leoni e pertanto che cosa mai potrebbe farle paura?
Ecco, il romanzo racconta due vite diverse che si incontrano e ci accompagnano verso un lieto fine di struggente dolcezza, dove niente è dato per scontato, niente viene scontato, ma alla fine tutto viene perdonato.
Nessuno può raccontarlo meglio della stessa autrice, così:
“Abela canta, quando gioca: ha una bella voce, acuta e dorata.
A volte litighiamo. Io le tiro i capelli e lei mi graffia. Vuole scoprire i miei segreti. Quando vengono a trovarmi le mie amiche e vorremmo starcene per conto nostro a ballare in camera e parlare dei ragazzi che ci piacciono, non fa che ciondolarci attorno con le orecchie ritte. Certe volte è una vera scocciatura averla fra i piedi.
In cuor mio ho la sensazione che sia più saggia e più in gamba di me, che sappia cose che io non saprò mai, che abbia visto cose che io non vedrò mai, che farà cose che io non farò mai. Guardo nel nero dei suoi occhi e vedo creature selvagge, posti ignoti e spaventosi, sofferenza insopportabile. Abela ha superato tutte queste cose, ma ormai sono parte di lei e l’hanno resa quella che è. Penso che diventerà una persona bella, una persona notevole.
Non rinuncerei mai a lei. Per niente al mondo”.
E, sinceramente, dopo averla conosciuta, nemmeno noi lettori possiamo più fare a meno di lei. Abela ci è entrata dentro, rendendoci delle persone migliori.
Cristina Brambilla
Scrittrice ed editor