Ancora un libro di fiabe? E perché mai dovremmo leggere storie che nulla hanno a che fare con noi? Ormai, tramite smartphone, social network e selfie, possiamo comunicare in tempo reale e, a viva voce, raccontarci e ascoltarci senza mediazioni.
Che cosa c’entrano quindi scenari medievali, popolati di lupi, fate e streghe, principi e orchi, gatti parlanti e stivali delle sette leghe? Il nostro immaginario è ben altro! In internet possiamo assumere identità fittizie, affrontare rischi senza conseguenze, provare amore e odio, avvicinare e allontanare sconosciuti destinati per lo più a rimanere tali. È questo il nostro bosco incantato, il sogno senza confini nel quale mettere in scena paure e speranze, vivere un presente senza passato e senza futuro. Il mondo virtuale non solo si affianca a quello reale ma, attirandoci al di là dello schermo, come Alice nel Paese delle Meraviglie, tende a inghiottirci.
Eppure le fiabe non si sono lasciate cancellare dai miraggi della tecnologia. Personaggi e vicende sono ancora qui: popolano il nostro immaginario, animano i videogame, s’insinuano nei sogni, nei giochi, nella pubblicità, nelle trame dei libri e degli spettacoli. Soltanto, non sappiamo più da dove provengono, chi ne è l’autore e come ci suggestionano.
Forse è sempre stato così ma, rispetto al passato, sono cambiate la trasmissione e la diffusione delle fiabe. Un tempo transitavano da una generazione all’altra lungo il filo di una narrazione orale che prevedeva un’unica direzione: da una bocca che parla a tante orecchie che ascoltano. Il passaggio avveniva in uno spazio privato, chiuso e accogliente, in un cerchio magico circoscritto dalla luce della lampada o dal calore del focolare. E fuori il buio della notte, il vento che soffia tra i rami e la voce narrante di un nonno o di una nonna che evoca un mondo lontano lontano, per consegnarlo ai nipoti che, a loro volta, lo avrebbero poi trasmesso ai propri figli e nipoti. Allora quell’eredità aveva una sua necessità. Nessuno si chiedeva “perché raccontare?” né “perché ascoltare?”.
Ma il nostro, osserva lo scrittore e traduttore Gianni Celati, non è un tempo predisposto all’ascolto, alla gioia offerta dalla sonorità delle parole […]. Non è un tempo predisposto alla fantasticheria, alla fola [fiaba], all’immaginazione, che semmai è stata smontata, disfatta, distrutta. Anche e soprattutto dalla cosiddetta letteratura che ci circonda.
Eppure la letteratura ha costituito lo scrigno dove trame e figure dell’immaginario condiviso, sottratte all’usura del tempo e alla dissipazione dei legami generazionali, sono state conservate e tramandate, pronte a essere rimesse in circolazione. E, se ora possiamo riascoltarle, è perché qualcuno le ha raccolte, trascritte e messe a nostra disposizione.
Ma anche dopo questa premessa potremmo continuare a chiederci: vale la pena di racchiudere quel flusso vitale in un libro, fissare le figure che popolano la nostra fantasia in un’unica versione, racchiudere racconti anonimi e collettivi sotto il nome di un autore?
La risposta è sì perché, venuta meno la trasmissione orale tra le generazioni, spetta al libro custodire un patrimonio di sapere e di saggezza che fa di noi quello che siamo.
Lette, ascoltate, raccontate o inventate, le fiabe rappresentano il caos delle emozioni che è dentro di noi e danno senso, attraverso il loro svolgimento, a esperienze che altrimenti ci rimarrebbero oscure.
Rispetto agli altri libri, le fiabe costituiscono degli archetipi, stampi originali da cui prende forma ogni narrazione. Le loro trame, ridotte all’essenziale, rendono confrontabili e comprensibili tutte le storie, anche quando accadono in contesti lontani nel tempo e nello spazio. Le emozioni che esse suscitano non hanno confini in quanto registrano, come sismografi, i “fatti della vita”, quelli che ci riguardano e ci coinvolgono in quanto “esseri umani”.
Se possiamo leggere con partecipazione e piacere tanto le fiabe che Charles Perrault ambienta in un ipotetico Medio Evo francese, quanto le novelle orientali de Le mille e una notte o le leggende africane e siberiane, è perché gli elementi comuni superano di gran lunga le differenze.
Pubblicate alla fine del Seicento, le Histoires ou contes du temps passé di Charles Perrault, più note come Contes de ma mère l’Oye, in italiano I racconti di Mamma Oca avevano ottenuto uno straordinario successo alla corte di Re Sole, tanto da dar vita a un nuovo genere letterario. Tradizionalmente narrate in dialetto, le fiabe vengono trascritte, per la prima volta, in un francese colto ed elegante, eppure conciso e immediato, capace di narrare con naturalezza le più inverosimili avventure.
Possiamo presumere che molti degli argomenti affrontati – come l’attesa dello sposo, la sventatezza delle bambine, i pericoli della curiosità, la furbizia degli incolti, i castighi della superbia, i premi della gentilezza, la forza dell’amore, le imprevedibili risorse dei più deboli – suscitassero discussioni morali e fornissero utili insegnamenti sull’esistenza umana. Non a caso il titolo della raccolta finiva con la postilla, successivamente dimenticata, “avec des moralités”, ovvero con una morale finale. All’autore non sfuggiva certo la crudeltà di molti protagonisti e l’inquietante atrocità di tante situazioni ma, come scrisse Perrault stesso, la fiaba diverte e muove al riso, senza che madre, sposo o confessore possano trovarvi nulla da ridire.
Le fiabe consentono dunque di unire il piacere della lettura con quello della riflessione e dell’educazione morale.
Silvia Vegetti Finzi