Da qualche anno non insegno più. E come ogni maestro che lascia per sempre le aule scolastiche, anch’io mi sono portato dietro il mio carico di ricordi, di nostalgie, di rimpianti.
Mentre scrivo, leggo un libro, accudisco la gatta o faccio la spesa, i ricordi insorgono e mi riportano indietro nel tempo a dieci, venti, trenta e più anni fa. A quando ero un giovane maestro sprovvisto di risorse, a quando, di fronte a un fallimento educativo, mi chiedevo se era davvero quello il mestiere che faceva per me.
Oppure ripenso al bambino cui insegnavo pazientemente ad allacciarsi le scarpe, a quello che faceva fatica a impugnare la matita, a quello che mi tallonava in cortile facendomi domande su domande, che erano solo una scusa per avere a disposizione un adulto che lo ascoltasse, visto che in casa non contava per nessuno.
Rivedo il volto rigato di lacrime della bambina che piangeva per un nonnulla e che la mamma minacciava all’uscita se, una volta a casa, avesse scoperto un quaderno in disordine e pasticciato.
Ma affiorano anche i momenti in cui i bambini si facevano medicare con languore per un livido, un graffio, la scorticatura a un ginocchio.
Ed ecco le corse per salire su un autobus che ci avrebbe portati a un museo o a una cascina in periferia. E le lunghe camminate per raggiungere il parco dove poter correre e fare capriole, accompagnati dal mormorio del Po che aveva già ingoiato le acque della Dora e si preparava a rimpinguarsi con quelle di un altro torrente più a valle.
Il maestro faceva l’arbitro durante le partite di pallone e girava la corda per far saltare le bambine, che si fidavano più di lui che delle loro compagne. Ma distribuiva anche fette di pane e mele a chi non aveva fatto in tempo a consumare la colazione prima di venire a scuola.
Eppure, tra i tanti ricordi che si affollano e premono e vengono alla luce nelle occasioni più imprevedibili, i più significativi, i più preziosi, i più esaltanti sono quelli legati ai momenti in cui regalavo ai miei alunni lunghe letture ad alta voce e narrazioni intense e distese.
Di quando in quando mi raggiungono le telefonate di Sebastiano: “Eri l’unico che, con le tue letture, riuscivi a tenere a freno la mia irrequietezza e le mie inquietudini di bambino frastornato e confuso”, mi dice.
Ricordo bene i volti assorti e incantati che mi fissavano quando leggevo o raccontavo una storia. In quei momenti non potevo fare a meno di tornare indietro nel tempo, agli anni Cinquanta del secolo scorso.
Mi rivedevo bambino povero, un po’ affamato, ma libero, curioso, irrequieto, vagabondo in una campagna che offriva generosamente il poco che poteva dare: fiori, erbe, cardi, chiocciole, bacche.
E rivedo mio nonno, un vecchio piccolo e minuto, l’occhio vivo, il sorriso ironico, circondato da una folla di nipoti che gli chiedevano storie e racconti. Soprattutto nelle sere d’inverno, quando fuori rumoreggiava la tramontana che cercava di infilarsi tra le crepe e le fessure di una vecchia porta scrostata.
Allora mio nonno sistemava i nipoti intorno a un braciere, raccomandava il silenzio e cominciava a raccontare. Erano racconti della tradizione contadina, intrisi di magia e di furbizia, di intraprendenza e di coraggio, di strettezze e di miracolose abbondanze.
Io mi sedevo sempre al suo fianco, perché le emozioni delle storie passassero direttamente dal suo corpo al mio. Quando andavo a coricarmi, mi sembrava di esserne impregnato e me le coccolavo tremando tra lenzuola fredde e rigide.
Non ho mai avuto libri nella mia infanzia. Nel paesino dove abitavo non si vendevano e comunque non si sarebbero potuti comprare. D’altra parte gli adulti che mi circondavano erano andati poco a scuola e sapevano a malapena leggere e scrivere.
Ma avevo a disposizione quel vecchio che sapeva raccontare con tanto fascino e che ascoltavo avidamente anche d’estate, quando poco dopo l’alba lo seguivo in campagna e lo osservavo curare con scrupolo gli orti dei “padroni”.
Ecco perché con i miei alunni non leggevo soltanto, ma raccontavo anche senza avere un libro tra le mani, proprio come faceva mio nonno, che ci guardava negli occhi, e ora procedeva veloce, ora si arrestava, ora ci chiedeva di indovinare che cosa sarebbe successo di lì a poco al protagonista della storia.
Quando leggiamo e raccontiamo storie ai bambini, in una situazione di calma e di silenzio, in cui il tempo reale cede il passo a un tempo immaginario dove i desideri si affinano e i sogni diventano realizzabili, regaliamo all’infanzia forza e leggerezza, sicurezza e fiducia.
Se oggi qualcuno mi chiedesse: “Perché hai fatto il maestro per quasi quarant’anni?”, risponderei senza esitare: “Per raccontare storie e per formare lettori”.
Ho regalato sempre del tempo ai miei alunni perché in classe potessero stare in compagnia di un libro il più a lungo possibile. Non mi sono mai lasciato condizionare dalla fretta di completare un programma che alla fine di un anno scolastico rischia di restare privo di anima.
Credo, in questo modo, di avere contribuito a formare dei bambini più forti e più sereni, più capaci di ascoltare se stessi e gli altri, più pronti ad affrontare l’avventura della vita.
Angelo Petrosino
(Illustrazione di Sara Not per Un sogno tra le righe)