È inutile nascondersi dietro un dito. Peggio che peggio fingere ipocritamente che le cose stiano diversamente.
Ai bambini di oggi non gliene dovrebbe importare un fico secco della Prima Guerra Mondiale. Intendo dire che non gliene dovrebbe importare, così, a prima vista, a pelle.
Io mi picco di ricordare ancora abbastanza bene tante cose di quando ero bambino. Rammento che avvertivo tutto sommato abbastanza vicino a me e al mio tempo quel che aveva a che fare con il Fascismo e con la Seconda Guerra Mondiale: ma già il primo, rispetto alla seconda, mi appariva sfumato e noiosissimo. Vuoi mettere i carri armati di Patton o i caccia della Battaglia d’Inghilterra rispetto all’Aventino o alla Battaglia del grano?
Se faccio le debite proporzioni in senso cronologico, un alunno odierno di quinta elementare si può relazionare con la Grande Guerra, nella migliore delle ipotesi, allo stesso modo in cui io mi rapportavo all’occupazione da parte del regio esercito italiano della città di Massaua e da lì dell’Eritrea.
Ma via! Non sapevo neanche dov’è Massaua e cosa fosse l’Eritrea! E – siamo onesti – in ogni caso non me ne sarebbe potuto importare di meno.
D’accordo, si dirà. Ma la guerra del “QuindiciDiciotto” come la chiamava sempre la mia nonna, è ben altra cosa rispetto alla velleità italiche di dominio africano. Giusto, ma finché non è portato a rendersene conto, l’alunno elementare di cui si diceva poco sopra non avrà nessuna coordinata per orientarsi nell’immenso mare di passato che gli sta alle spalle e che gli apparirà inevitabilmente assai meno allettante del caldo presente in cui nuota e del futuro (si spera solare) che intravvede all’orizzonte.
A questo punto entra in gioco la collana “La Grande Guerra 1914-1918”. Perché la chiave dell’interesse per la Storia (persino dell’apprendimento della Storia, mi spingerei a dire) è – fondamentalmente – una sola: l’immedesimazione. Se ci si perde quella per strada, la nostra battaglia di docenti (a qualunque livello, rivolta a studenti di ogni età) è persa in partenza. Da un punto di vista metodologico, si aprirebbe a questo punto la strada a una innumerevole serie di precisazioni, svolgimenti e osservazioni che naturalmente non è qui il caso di tenere in conto. Basti notare che il modo più semplice per suscitare immedesimazione in qualcuno è raccontargli una storia. E una delle tecniche che nei secoli abbiamo elaborato e consolidato per farlo è scrivere libri, che si spera qualcuno legga.
Quando leggiamo un libro che riesca almeno in qualche misura a catturarci, ci immedesimo in ciò che racconta, a maggior ragione se è un romanzo, perché la trama coinvolgente e la partecipata trepidazione per la sorte dei personaggi ne costituiscono quasi sempre, per definizione, l’anima stessa. Ecco allora che se quel libro ci trascina ad immedesimarci in una storia (con la “S” minuscola) che sta dentro alla Storia (“con la “S” maiuscola), almeno un pezzo del gioco è fatto. L’obiettivo primo dei piccoli romanzi de “La Grande Guerra 1914-1918” è far sì che le vicende della Prima Guerra Mondiale comincino ad essere per i loro lettori qualcosa di più di ciò che era la presa di Massaua per me bambino di quarant’anni fa.
Avvicinare un bambino (cioè, si noti bene, un futuro cittadino) alla Storia, far sì che il passato divenga con un certo grado di consapevolezza e passione parte di lui, è una operazione lunga, puntuale, metodica: anche faticosa. La portano a compimento, quando le cose vanno bene, i racconti dei nonni e dei genitori, i fumetti, i film. I libri, appunto.
Per questo ho accettato volentieri di collaborare al progetto di questa collana. Perché l’impianto di note a lato del testo può aiutare il lettore a meglio precisare all’interno della realtà storica dei fatti ciò che gli viene raccontato, ma può anche tranquillamente essere ignorato: il filo del racconto fluirà ugualmente.
E i libri per ragazzi questo hanno, forse più che ogni altra cosa, di bello: che se sono scritti con criterio (o non appartengono a generi come la fantascienza o il fantasy…) mostrano, là dove pongono al proprio centro protagonisti di giovanissima età, che all’interno di vicende eccezionali si dipanano sempre storie tutto sommato normali, come sono quelle che può vivere un bambino.
La Prima Guerra Mondiale, con il suo nome altisonante e la sua abissale lontananza nel tempo rispetto alla quotidianità di un ragazzino o di una ragazzina che frequenta una scuola elementare o media italiana degli anni duemila, si rende così presente: almeno un poco più concreta e tangibile di quanto potesse esserlo sui manuali di studio per l’enorme maggioranza di tutti coloro che non amano istintivamente la Storia.
“Un po’ poco”, potrà dire qualcuno. Non credo.
Entro quasi quotidianamente in aule universitarie affollate da ventenni disamorati verso il passato. Meglio ancora, frigidi. Giovani che si sentono ossessivamente rimproverare di non saper conservare memoria storica e quindi di essere incapaci di contribuire a fornire una identità sociale, politica, anche solo culturale al proprio paese. Giovani che comunicano il senso disarmante di essere reduci di una guerra che neppure hanno mai combattuto. Mutilati di qualcosa che non hanno mai sperimentato.
Non provo mai disdegno verso di loro, che mi avvicinano dopo le prime ore di lezione per confidarmi che non c’è niente da fare: loro, la storia, l’hanno sempre odiata. Penso piuttosto che nella maggior parte dei casi, non è vero che l’hanno sempre odiata. È che nessuno gliela ha mai raccontata. Raccontata bene. Eppure – sono assolutamente certo – ciascuno di loro ha vissuto un tempo in cui niente altro importava di più. Saper cosa era accaduto quando loro non c’erano ancora; venire a conoscenza di ciò che non potevano conoscere se non chiedendolo a chi c’era o a chi sapeva.
“Mamma, mi racconti ancora di com’è che hai conosciuto papà? E cosa faceva la nonna prima di sposarsi? E perché il nonno era andato all’estero? E come si chiamava il bisnonno?”
Non facevano altro che chiedere, ossessivamente, con dovizia di particolari, mai sazi, di spiegar loro cosa fosse la storia.
Poi, a un certo punto, hanno smesso. Disamorati, appunto.
Dobbiamo chiederci perché.
Forse non hanno avuto i libri giusti da leggere al momento giusto.
Paolo Colombo